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Mi accadeva in Italia quando acquistavo nei negozi con commessi stranieri e questi comunicavano tra loro nella loro lingua, mettendomi in qualche modo da parte, tenendomi all’oscuro.
Ridendo, alzando i toni o parlando appena e dandosi, suppongo, dei secchi comandi.

Entrando nei piccoli negozi pieni di oggetti, mi sembrava che parlassero alle mie spalle.
Approfittavano, credevo all’epoca, della mia non conoscenza di quel linguaggio che alle mie orecchie suonava segreto.
Ci vedevo della scortesia.
Del dolo.

Ma era prima della mia partenza e tante cose, tanti pensieri, sono cambiati.

Cosa penserà di me la cassiera di Sainsbury’s quando con mio marito ridiamo e parlottiamo di fronte alla sua faccia, in una lingua che lei non conosce?
Lo stesso!
Probabilmente penserà lo stesso.

Ed io non posso spiegarle che parliamo in Italiano perché così ci viene naturale, perché è la lingua di casa, quella che esce dalla pancia per prima, che raggiunge la bocca senza troppi giri nel cervello.

Vivendo all’estero abbiamo approfittato di quel nostro linguaggio segreto per esagerare, per parlare in un modo diverso, a tratti più sporco, che ci porta a dire cose che normalmente non diremmo in mezzo ad una strada piena di persone.
Perché tanto… chi ci capisce?
Puntuale però, quando qualcuno si avvicina per dire “Ei, italiani anche voi?” io mi paralizzo per la vergogna.
E penso.

Cosa.
Ho.
Appena.

Detto?

Cosa avrò detto solo pochi minuti fa?
Cosa mi sarò autorizzata a dire in pubblico, convinta di non esser capita?

Parlo italiano in casa mia, quasi sempre, fatta eccezione per qualche frase, qualche parola e qualche discorso iniziato o finito in una lingua che non è quella del paese che mi ha vista nascere.
Parlo inglese fuori casa, sul lavoro, per strada, prendendo un caffè e all’Università.

Vivo all’estero ed è finalmente successo.

Mi rendo conto, finalmente conto, che il mio inglese è migliorato in questi due anni.
Parlo veloce, a macchinetta.
Sono sicura e fluente.

Ci sono ancora delle imperfezioni e con le persone di qui, con gli scozzesi, a volte devo ripetere da capo perché l’accento è diverso e non mi stanno dietro.

Quando parlo dimentico ancora la esse per la terza persona ed i verbi irregolari vengono sputati fuori alla “come viene”.
Creo nuove parole convinta che abbiano una qualche coincidenza con la parola italiana che ho in mente.
Ho serie difficoltà a pronunciare in modo differente thought/throught/throw e compagnia bella.
E quando dico a qualcuno that I am living quello magari capisce that I’m leaving e via così, incompresa.

E ancora sono vittima di quei momenti.
Quelli che mi fanno sbagliare ogni parola e ogni forma verbale di un discorso appena intrapreso, gli stessi che ora mi fanno anche reagire, scoppiare a ridere di fronte al mio interlocutore, cancellare il tutto con un gesto della mano e dire “I am sorry, I don’t speak english anymore! Let me try again!“.

La sicurezza ormai c’è e siamo ben lontani da quella me che strizzava gli occhi fino a renderli due fessure, cercando di concentrarsi su almeno un quarto del discorso del suo interlocutore australiano.

I miglioramenti sono avvenuti lentamente ma i più evidenti li ho visti recentemente e le ragioni sono quelle che seguono.

In primis, ho smesso di lavorare come cameriera.
Un lavoro che ti fa parlare parecchio ma, aimè, perlopiù e sempre delle stesse cose.
Un lavoro che ringrazio di aver potuto fare perché mi ha fatta guadagnare abbastanza da mantenermi all’estero e mettere da parte del denaro. Che mi ha aiutato a mettere le basi per la mia integrazione, ampliando le mie conoscenze di lingua, persone e società.

Una volta in Scozia ho iniziato a lavorare, invece, come assistente per giovani adulti con disabilità molto gravi, fisiche e mentali.

Ho dovuto chiacchierare tanto con i miei ragazzi e l’ho dovuto fare da subito, fin dal primo giorno. Inoltre l’ho dovuto fare malgrado qualsiasi emozione stessi provando in quel momento.
Sono stati pazienti, i miei ragazzi, nel ripetersi per me perché, dopotutto, condividiamo qualcosa nel nostro essere non sempre in grado di farci comprendere.

Ci siamo venuti incontro, raccontati a vicenda, coccolati e insieme ci siamo arrabbiati e abbiamo riso.
Da quando faccio questo lavoro sono successe così tante di quelle cose da non aver neanche più tempo per realizzarle tutte.
E sono successe in inglese.

Lavorare con colleghi scozzesi per turni lunghi anche 15 ore mi ha forgiata.

HO DOVUTO parlare.
Ho dovuto impare in fretta termini tecnici.
Sono stata costretta, spinta, messa alla prova continuamente.

Guardata, non lo nascondo, anche come se fossi scema di tanto in tanto.
Dalle persone meno inclini alla diversità che chiaramente esistono, ovunque.

Non mi è importato, sono andata avanti, non mi sono crogiolata ma ho continuato, imparando tanto.

Mentre ero impegnata a parare i colpi e a non perdere il filo, ecco che è successo: ho imparato l’inglese!

Il segreto, se c’è, è buttarsi.
Buttatevi il più possibile in mezzo ai locali, imparerete il loro accento anche se all’inizio vi sembrerà impossibile e ben lontano da quello dei listening scolastici.
Lo imparerete e farete vostro, credetemi.

In mezzo a loro ascolterete e ripeterete nuove parole ogni giorno e alla fine sarete voi a correggerli nello scritto e sarà da voi che verranno a chiedere aiuto nello spelling.
Sarete sempre voi a correggere il native english speaker che avrete di fronte e avrete la stessa faccetta da professorina che vi compare quando qualcuno scrive qual’è.

Succederà.

E’ una promessa!

Serena, Scozia

P.S.
E se poi volete fare ancora più in fretta la soluzione è una ed una sola.
Trovatevi un amante tra la gente del posto!

Io purtroppo non ho potuto, per via di quel particolare chiamato “mio marito”. 🙂

 

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