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Una delle esperienze più devastanti della mia vita fu una visita al centro salute mentale della USL, un giorno che cercavo una risposta per una persona che amavo molto.
Mi sentivo gonfia, piena di forza e risoluta a porre fine all’insanità presente in quella situazione e conseguentemente nella vita delle persone che questa persona toccavano.
La struttura di fronte a me era enorme, da fuori persino molto bella. Uno di quei palazzi antichi di Roma, con i colonnati e le finestre larghe.
Per raggiungere la meta del mio colloquio dovetti scendere di un piano o due e mi ritrovai di fronte una stanza minuscola.
Quello era l’androne che anticipava la stanza dello psichiatra.
Non vi erano sedie, erano state divelte e non rimaneva che un mozzicone di seduta qua e la’, agganciato a barre di metallo.
Le pareti erano sporche e sembravano essere state ridipinte da qualcuno non del mestiere, qualcuno che probabilmente aveva usato il suo portafoglio per portare a termine quel lavoro che gettava sulla stanza un’ombra schizofrenica, appunto, senza una coerenza ne’ armonia alcuna.
Erano macchie rattoppate con altre macchie, questa volta rosa ed azzurre.
La luce andava ad intermittenza per rendere l’ombra citata ancora più vera, più onesta e letteraria.
Entrai per parlare con il dottore dei guai che intendevo risolvere e questi mi mandò via in cinque minuti, trattandomi come immondizia.
Avevo delle proposte per quella persona che lui liquidò, avevo delle paure per chi a quella persona badava ed ignorò pure quelle.
In quei cinque minuti ebbi il tempo di constatare lo stato di uno psichiatra che, ne sono certa, ce l’aveva messa tutta.
Ed era solo, sì, solo lui a badare a tutta l’utenza di quella parte di Roma. In una stanza sgarrupata con mobili scassati che, mi disse in quei cinque minuti, per sottolineare che soldi da spendere non ce n’erano per quelle mie fantasie, aveva portato via dalla casa che aveva rinnovato.
Tentai ancora di trovare una risposta alle mie domande, questa volta senza intermediari.
Ma era già troppo tardi.
Non ci fu molta giustizia e mi dissi che la vita è così, una merda quando ci si mette.
Non c’è giustizia e se ti capita una croce, la croce te la carichi addosso e te la tieni.
Finché non ti fagocita.
Finché non muori.
Ho realizzato che la propria vita è sempre un fucking mess quando la si guarda da vicino, ignorando il resto.
Che certe cose ci si dice “solo a me sono capitate” e ci si chiede perché.
Le schegge di una bomba che ti esplode in mano le nascondi sotto il tappeto e la vita va avanti. Ognuno con il proprio segreto a pesargli sulla schiena, là dove alla sera fa male.
Là dove la tensione si accumula.
Venendo a vivere in Scozia ho scoperto un paio di cose.
Ho scoperto che sono messi veramente male, anzi di più, almeno dove vivo io.
Conosco ben pochi Aberdonians che non siano finiti di fronte alla corte per rissa, per esempio.
Molti dei miei giovani colleghi usano droghe pesanti e sono alcolizzati.
Sono addicted to qualcosa e nonostante questo piuttosto integrati, lavorano e studiano.
Ho detto a me stessa che questo è il prezzo che si paga ad essere giovani in una città che ha pochi stimoli, ma non ho abbastanza dati per parlare di fatti. Questa, come sempre è solo la mia esperienza.
La mia umile esperienza mi ha mostrato un paese pieno di alcolizzati e drogati. Perché sì, ne vedo proprio tanti e lo dico senza pregiudizi, dato che io ero felice di frequentare in Italia un paio di conoscenti che si facevano qualche canna. Ma un drogato proprio, non l’avevo mai visto in vita mia.
Mai avrei immaginato che un mio collega potesse aver accoltellato qualcuno con la scusa di essere stato giovane e passionale.
Se altrove nessuno mai chiedeva o parlava, la mia esperienza, mia e solo mia, mi ha anche mostrato che di certi guai qui se ne parla eccome.
L’ho fatto notare al mio interlocutore di ieri che mi ha risposto una cosa molto bella:
“Ho nascosto tutto sotto al tappeto per troppo tempo”.
Così mi ha detto una persona di qui ed ha iniziato a raccontarsi così come hanno fatto tutte le altre, lasciando andare il fiume e senza aspettarsi di essere per questo giudicati.
Qui mi hanno parlato di aborto, apertamente e innumerevoli volte.
Senza giudizio verso la donna che compie quella scelta e senza paura di incappare nel facile giudizio altrui.
E’ successo spesso senza dramma, senza dover per forza tirare in ballo il senso di colpa che altrove inculcano, ma che non necessariamente si deve avere o provare.
Mi hanno raccontato, pur conoscendomi appena, di tutti i problemi di salute mentale avuti in casa propria o sperimentati sulla propria pelle.
Bipolarismo, depressione cronica, schizofrenia ma anche autismo, violenze fisiche, psicologiche e sessuali e altre miserie.
Di figli tolti in un battito di ciglia, di assistenti sociali che arrivano e cominciano a lavorare.
Di troppi fratelli che si sono suicidati, spariti da questa vita da un giorno all’altro, lasciando un vuoto incolmabile. Di bambini che non riescono ancora a leggere o scrivere, vittime di bullismo a scuola o di dolorose realtà in casa.
Di persone care che si sono tagliate via la faccia dando ascolto alla propria malattia mentale, che hanno perso una mano per iniettarsi la droga, che hanno rubato in casa e sul lavoro, che sono state violente fino a far dire basta all’altro.
Persone che si hanno o avevano in casa.
Mi hanno parlato del partner che sta veramente male e del genitore terribilmente abusante. Mi hanno citato tutte le etichette cucite addosso ai propri malati, riconosciute dal sistema nazionale e mi hanno aperto il cuore mostrandomi il proprio calvario.
Hanno usato i nomi che altrove si faceva fatica a pronunciare e che men che meno si raccontavano. Avevano tutti una diagnosi chiara in mano e, quello che mi ha stupito, è che non parlo di una o due persone.
Parlo di quasi tutte le persone che conosco qui.
Che verrebbe quasi da chiedersi chi siano i pazzi.
Gli Italiani che manco sanno di esserlo e al massimo si dicono esauriti o pieni di rabbia per la frustrazione di vivere in un paese con qualità della vita altalenante? O quelli di qui che vengono così facilmente riconosciuti, etichettati e successivamente medicati?
Ho chiesto, esattamente come feci a Roma, come è possibile che in certe situazioni non si possa fare niente.
Che sia l’ago in vena o la malattia mentale che ti devasta.
Non si può avere un aiuto?
Costringere l’altro a curarsi?
Mi è stato risposto di no, anche qui come altrove, non c’è la giustizia che spereresti, quella delle favole belle.
Ho trovato però qualcosa.
Tanto supporto e abbracci dati tra semi sconosciuti alla fine di ogni confidenza fatta.
Non abbiamo parlato nascosti in una stanza chiusa, ma spesso a tavola, spezzando insieme il pane e condividendo il tè.
Ho trovato persone devastate ma senza paura di ammetterlo, capaci di portare alla luce il proprio piccolo o grande dramma.
La falsità esiste anche qui, ma non ho mai sentito qualcuno commentare “Certo però…” o mettere bocca senza aver idea alcuna della vita dell’altro.
“Che famiglia!”, mai l’ho sentito dire scuotendo la testa e spazzando ancora più schegge sotto il proprio tappeto, ormai rigonfio e al limite.
Puntando il dito sull’altro, così come fanno gli sciocchi.
E le strutture, le possibilità e le attività per chi non ha colpa ma solo la sfiga di essersi beccato in dono la malattia (fisica o mentale) ci sono eccome.
Nella casa di cura nella quale lavoro, ogni giorno i ragazzi disabili che seguo hanno attività da fare. Discoteche da frequentare, posti nuovi dove mangiare tra amici e c’è solo l’imbarazzo della scelta.
E rispetto al lungo preambolo con il quale ho iniziato questo post?
Beh, è vero, non c’è giustizia neanche qui e se ti capita una croce, è tua.
Ma lo stato c’è e vi dico perché.
Se nasci con una disabilità grave non necessariamente rimani a morire a casa dei tuoi genitori, magari sopravvivendogli e aspettandoti di essere sfrattato da un momento all’altro per crepare chissà dove perché, con la sola pensione di accompagnamento, dove vuoi andare?
E se non hai le mani né chi ti porta il cibo alla bocca, che razza di fine fai?
No, qui, non è così.
Le strutture ci sono e lo stato paga perché tu ne usufruisca e paga eccome.
Parliamo di cifre che a me sembrano enormi. Ho visto sussidi di più di seimila sterline al mese per disabili al 100%. Più un contributo di altri 1000 se questi vogliono vivere da soli ed uscire fuori di casa.
Per permettere al disabile e alla famiglia di vivere anche oltre quella relazione capitata per sangue e discendenza.
Con persone che vengono chiamate e non vanno a bussare porte. No, che vengono proprio chiamate per parlare della soluzione migliore per loro. Di una casa nella quale abitare, dell’assistenza da ricevere.
Strutture quali care-home ed altre simili ad enormi alberghi. Ognuno con la propria stanza con TV e macchinari per, ad esempio, raggiungere la stanza da bagno con l’aiuto di personale disponibile h24 sul piano.
Disponibile premendo un bottone.
O di sedie a rotelle cambiate e aggiornate, non sicuramente ogni anno ma spesso, date in dotazione ogni volta più belle.
Elettriche, veloci e affidabili.
Gratuite.
“Sembra una moto!”, ho detto ad una ragazza che seguo, mentre scappava premendo sul gas per provare la sua sedia nuova sgargiante, con fari enormi ad illuminarle la strada.
Ho riso per riacchiapparla correndo e poi svelte siamo andate dove voleva lei, a berci una cioccolata in centro.
Prendendo bus dove la pedana funziona sempre.
Il sistema sanitario inglese avrà al suo interno degli incompetenti veri e mi sarò sentita smarrita ed arrabbiata dopo ogni diagnosi scazzata. Però ecco, è tutto gratuito.
Hai bisogno delle medicine e ce le hai gratuitamente così come le visite specialistiche. Sono un tuo diritto e ti spettano.
Tanto che a volte, ripensando ad alcune situazioni viste in Italia, mi verrebbe da pensare e dire: “Sei un disabile con una pensione da 516 euro o quello che è? Fai le valigie e vieni qui.”
Dove conosco persone con casa popolare avuta per il solo fatto di essere single, almeno a loro dire.
E mi viene in mente il primo mese a Melbourne, che a camminare per il centro mi pareva un lazzaretto.
E mi dicevo: “Ma che ci fanno tutti questi disabili concentrati qui?”
Chi con la carrozzella, chi con le stampelle, chi con altre ovvie patologie.
Che cosa c’hanno nell’aria gli australiani per averne così tanti?
E poi ho guardato per terra ed ho visto che non c’erano barriere architettoniche. Che non c’erano radici d’albero o macchine sullo spot per i disabili, che la strada era piatta e liscia.
Non era l’aria il problema ed il lazzaretto non era mai esistito.
Erano semplicemente disabili liberi di uscire di casa.
Serena, Scozia
[…] una città piccola come Aberdeen e con non troppi stimoli, c’è chiaramente un altro lato della medaglia. Ho visto ragazzi molto giovani perdersi completamente tra alcool e droghe e senza bere rimangono, […]
[…] gli svedesi, come i britannici e gli australiani, hanno avuto dei bei problemi per colpa dell’alcool e qui il governo vieta di vendere alcolici sopra il 3.5%. Questo vuol dire che nei supermercati […]
Mi hai commosso. Hai detto molto di quello che sento, nella maniera in cui lo direi io. Grazie.
Grazie Federica, mi dispiace perche’ forse vuol dire che sai di cosa parlo e fa sempre male. Un abbraccio!
[…] Londra e le sue problematiche. Come detto qui più volte, la mancanza di stimoli, la povertà ed il problema con alcool e droga porta molti – molti – a vivere nella devastazione, qui in […]