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Atterrare a Fiumicino è ogni volta un battesimo del fuoco, se da una parte c’è lo stupore e l’orgoglio di vedere gli ambienti puliti dall’altro è un veloce ripasso di alcune tra le cose che più male sopporto.
Durante il resto del mio soggiorno a Roma queste cose aumentano, mi capitano sotto gli occhi, ci inciampo ed oggi ho deciso di parlarne. Di pancia e di questo mi scuso.
1) L’atterraggio.
L’applauso l’ho fatto anche io prima di diventare una globetrotter e non parlo di questo, in alcuni voli mi sembrò anche una cosa molto carina.
Quello che invece mal sopporto è il realizzare che sì, è vero, noi Italiani abbiamo un tono della voce piuttosto alto e anzi ci piace proprio farci ascoltare mentre siamo al telefono.
Neanche il tempo di fermare l’aereo e siamo già tutti al cellulare a parlare di nulla.
Voci che si sovrappongono, prendono accordi e si lamentano della qualsiasi, ma veramente della qualsiasi come se ci fosse stata la fine del mondo.
Durante il mio ultimo volo l’applauso non c’è stato ma 180 mani hanno iniziato a comporre numeri sul cellulare, all’unisono.
Le cinture di sicurezza vengono slacciate e le gambe scalpitano.
Il comandante ripete di stare seduti ma è inutile, sono tutti in piedi, incuranti di quella piccola regola per una serena convivenza.
Io vorrei strozzarli tutti.
2) La maleducazione di chi dovrebbe aiutarti
Eravamo in tanti sul volo e le valigie non riescono ad entrare tutte nel rullo.
Arrivano due ragazzoni a prenderle e buttarle in mezzo al pavimento, alla buona.
Per tutto il tempo non perdono occasione di lamentarsi del lavoro, della situazione – che è spiacevole, me ne rendo conto – aggiungendo parole colorite e inveendo contro un sistema che a volte cede.
Una donna velata non trova il suo bagaglio e giustamente si avvicina ad uno di questi che, agli occhi di chiunque , sembra far parte del team che gestisce i bagagli.
Ma no, niente, il ragazzo non parla una parola di inglese e ripete alla signora “Si sposta per favore che sto lavorando!” per tre volte.
Sì, lo fa in italiano.
Non sono la snobbettina fortunella che ha vissuto all’estero ed ora che sa l’inglese deve far pesare alcune cose a chi non ha avuto le stesse occasioni.
Proprio no.
Ma due parole in croce ed un “I’m sorry but I don’t speak english very well. See, there is an information point there. I suggest you to go there” e’ impossibile che non lo si impari lavorando in un aereoporto.
E se non lo si fa, se nulla si vuole imparare pur lavorando in un aeroporto come Fiumicino, è veramente grave.
3) L’abusivismo sotto gli occhi di tutti
“Taxi?”
Me lo chiede una signora mentre esco dall’aeroporto anche se la piazzetta è ben lontana da lì.
Solo dal modo di proporsi ho capito l’antifona, tornando con la memoria a quando secoli fa frequentavo stazione Termini e la stessa domanda mi veniva posta.
Sono abusivi.
No, dai, non è possibile che nessuno fermi tutto questo.
Questa donna è di fronte a me, con il viso scoperto e l’aria tranquilla.
NON.
E’.
NORMALE.
4) Ancora, il desiderio di rivalsa di chi dovrebbe aiutarti
L’aeroporto è solo un ricordo e mi godo la mia bella Roma.
La adoro.
Come durante ogni mia fuga in Italia ho da fare mille cose e questa volta ne approfitto per un check-up medico in una struttura privata.
Di solito contatto la clinica via mail, ma decido di chiamare per fare prima.
“Buongiorno, ho prenotato una serie di visite via mail ma…”
“Via mail? Signora, noi non prenotiamo via mail. Cosa intende?”
Le spiego e continua a dirmi che quella non è la sua procedura, a muso duro e con voce pietosa di chi ti sta facendo un favore.
Proprio non capisco cosa dovrebbe importare a me di sapere la loro procedura. In quel tono di chi ti biasima per un nonnulla.
Ma per cosa esattamente?
Di nuovo, non capisco.
Quando mi presento alla visita la segretaria mi guarda e mi dice “Ah, lei è quella famosa”.
Rimango senza parole.
5) Il degrado
Questo punto mi fa un male esagerato.
Sono passata dall’orgoglio di vedere ed utilizzare, per la prima volta, la metro C che tanto a lungo i romani avevano desiderato al voler sprofondare 100 metri sotto terra per non dover vedere lo stato della mia città natale.
Sotto casa i cassonetti emettono un fetore allucinante, vuoti o strapieni che siano.
Passano delle persone a rovistare in mezzo a quei poveri rimasugli e lasciano tutto in terra. In quell’angolo di strada che era già pieno di ben più antica porcheria.
I marciapiedi della periferia sono giungle con piante alte più di me che sono un metro e sessantacinque.
Le spine mi graffiano le braccia. Per superare alcuni tratti devo buttarmi in mezzo alla strada e di nuovo, la sporcizia è in ogni dove.
Alla fine partecipo ad una festa del quartiere e nel mezzo di quelle bancarelle autorizzate c’è un numero esagerato di abusivi che vendono merce che, se tutto va bene, è contraffatta.
Di nuovo sembra normale così, è Roma e siamo in qualche modo abituati.
Io no, purtroppo non riesco ad accettare tutto questo e scene così le ho viste solo in determinate parti del mondo che per me non rientrano nella categoria “paesi sviluppati”.
Che tristezza Roma mia. Pensare che quando vengo da te ci vengo con il cuore che palpita e l’emozione di vedere i tuoi bei colori, persino quelli delle casone popolari.
Sapessi Roma con che sguardo butto lì che sono nata proprio tra le tue mura. Che Trastevere voleva dire estate ed il centro me lo facevo a piedi in un giorno qualunque.
Che dolore che mi fa.
Serena, Scozia